Dipendente agorafobico? Va ricollocato in ufficio

Postato da il 1 mar 2016 in diritto del lavoro, procedura civile, prova, Tutti | 0 commenti

Dipendente agorafobico? Va ricollocato in ufficio

Cassazione Civile, sez. lavoro, sentenza 10/02/2016 n° 2654

Se il dipendente non risulta idoneo a svolgere le mansioni affidategli per accertati motivi di salute, va ricollocato in ufficio.

E’ quanto disposto dalla Corte di Cassazione, sez. Lavoro, nella sentenza 3 dicembre 2015 – 10 febbraio 2016, n. 2654.

Nella vicenda in esame, la Corte di merito, confermando la sentenza del Tribunale di prime cure, aveva accolto la domanda di una dipendente di Poste Italiane addetta al servizio recapito posta, volta ad ottenere l’assegnazione a mansioni diverse, compatibili con il suo stato di salute. Nella sentenza impugnata, la Corte, aveva ritenuto tra le due consulenze d’ufficio, una svolta nella fase cautelare e l’altra nel giudizio di merito, che peraltro concludevano entrambe per l’inidoneità della lavoratrice a svolgere mansioni di portalettere, maggiormente attendibile il primo elaborato peritale. Il consulente tecnico d’ufficio nominato in sede cautelare, aveva dunque accertato che la lavoratrice fosse affetta da una sindrome ansioso depressiva con disturbi del sonno, ravvisando una forma di agorafobia incompatibile con l’attività di portalettere comportante un rapporto con gli altri.

Avverso la sentenza della Corte territoriale, la Società Poste Italiane, ha proposto ricorso in Cassazione denunciando un vizio di motivazione, in quanto la ricorrente asseriva che i giudici d’appello fossero pervenuti a conclusioni “difformi e ultronee rispetto a quelle rassegnate dagli stessi consulenti d’ufficio “, atteso che il secondo consulente tecnico d’ufficio, non aveva rilevato espressamente l’agorafobia della lavoratrice.

La Suprema Corte ha respinto il ricorso, ritenendo che la sentenza impugnata fosse priva di vizi di motivazione, e che fosse stata dimostrata l’inidoneità della lavoratrice a svolgere le mansioni di portalettere.

In particolare, la Cassazione ha rilevato che la Corte territoriale, aderendo alle conclusioni formulate dal Ctu nominato in sede cautelare, avesse adeguatamente motivato la propria decisione, in quanto nella suddetta consulenza tecnica, la dipendente era stata descritta come un soggetto affetto da disturbi di ordine psicologico, con evidenti incompatibilità con le mansioni da svolgersi all’esterno dell’ufficio. La successiva consulenza redatta in sede di giudizio di merito davanti al Tribunale aveva accertato una situazione immutata rispetto a quella osservata dal primo Ctu e dalla Asl.; poichè il secondo consulente si era limitato a diagnosticare genericamente una sindrome ansioso depressiva senza altri approfondimenti, la Corte d’appello aveva ritenuto maggiormente attendibile la valutazione contenuta nella prima consulenza tecnica.

Ribadendo un principio già più volte espresso dalla Cassazione (Cass. 19494/2009), i giudici di Piazza Cavour hanno precisato che la mancata ammissione di un mezzo istruttorio, nonché l’omessa od erronea valutazione di alcune risultanze probatorie, non conferisce al giudice di legittimità il potere di riesaminare l’intera vicenda processuale, bensì soltanto quello di controllare l’esistenza di un vizio di motivazione nel ragionamento svolto dal giudice di merito, sussistente solo quando, in quel ragionamento, fosse rinvenibile il mancato oppure insufficiente esame di punti decisivi della controversia, ovvero in presenza di un contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico – giuridico posto alla base della sentenza impugnata.

Nel caso in esame, parte ricorrente non ha dimostrato errori o carenze negli accertamenti svolti o eventuali affermazioni illogiche o scientificamente errate, limitandosi ad invocare una diversa verifica delle prove raccolte. Per tali ragioni, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso, con condanna della società al pagamento delle spese di lite.

Fonte: Altalex.com

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