L’epidemia improvvisa ha stravolto il principio della libertà contrattuale e della libertà di iniziativa economica privata, cardini del nostro sistema per poter consentire il mantenimento delle transazioni commerciali. L’economia è un settore importante della vita della Nazione e non può essere sacrificato completamente al solo fine di soddisfare gli interessi politici del Governo, seppur giustificati dall’obiettivo di contenere il diffondersi della pandemia. Ebbene mancano nella normativa di prevenzione del Covid 19 rimedi innovativi con cui salvare i contratti in essere. Bisognerà quindi compiere un’analisi dettagliata dei rimedi tradizionali con cui salvare gli effetti dei negozi stipulati dalle imprese.
Il problema indotto dalla pandemia è, sovente, quello della sproporzione: qualora una delle prestazioni divenga pure parzialmente inattuabile, l’altra diviene sbilanciata e il senso dell’operazione programmata ne esce frustrato. Il Governo italiano ha fatto reiterato ricorso allo strumento del decreto-legge, emanando in sequenza: il d.l. 2 marzo 2020; il d.l. 17 marzo 2020, n. 18 c.d. “Cura Italia”; il d.l. 8 aprile 2020, n. 23 c.d.. “Decreto Liquidità”; il d.l. n. 28/2020. Il plesso delle norme emergenziali, tuttavia, non delinea rimedi negoziali nuovi alle sperequazioni indotte dal lockdown o dai suoi strascichi.
Le eccezionali misure di sostegno economico annunciate dal Governo non risolveranno tutti i problemi, e il valore vincolante dei termini contrattuali (cioè il principio Pacta Sunt Servanda) potrebbe mettere tanti imprenditori in difficoltà.
Lo shock economico da pandemia mette sul tavolo due problematiche interconnesse: quella della gestione delle sopravvenienze perturbative dell’equilibrio originario delle prestazioni contrattuali; quella dei correlati rimedi di natura legale e convenzionale. Sul punto, giova evidenziare che l’inadempimento contrattuale, ai sensi dell’art. 1218 c.c., è costituito dalla mancata esecuzione di una prestazione qualora sia carente, da parte, dell’obbligato, l’impegno di diligenza e di cooperazione richiesto, secondo il tipo di rapporto obbligatorio, per la realizzazione dell’interesse del creditore, ciò nel presupposto che la prestazione sia soggettivamente possibile. In buona sostanza, la difficoltà nell’adempimento non impedisce la prestazione, con conseguente liberazione del debitore, ma costituisce soltanto un ostacolo che il debitore è tenuto a superare con la dovuta diligenza.
In sintesi, dunque, l’art. 1218 c.c. è strutturato in modo da porre a carico del debitore, per il solo fatto dell’inadempimento, una presunzione di colpa iuris tantum, superabile mediante la prova dello specifico inadempimento che abbia reso impossibile la prestazione o almeno la dimostrazione che, qualunque sia stata la causa dell’impossibilità, la medesima non possa essere imputabile al debitore.
In materia di inadempimento contrattuale, non può non rilevarsi che, ai sensi dell’art. 1256 c.c., l’obbligazione si estingue quando, per causa non imputabile al debitore, la prestazione diventa “impossibile”; se tale impossibilità è solo temporanea, inoltre, il debitore, nelle more della stessa, non è responsabile del ritardo nell’adempimento.
La liberazione del debitore per sopravvenuta impossibilità della prestazione, dunque, può verificarsi – ai sensi dell’art. 1256 c.c. – solo se ed in quanto concorrano l’elemento obiettivo della impossibilità di eseguire la prestazione medesima, in sé considerata, e quello soggettivo dell’assenza di colpa da parte del debitore riguardo alla determinazione dell’evento che ha reso impossibile la prestazione.
Tra le cause invocabili ai fini della richiamata “impossibilità della prestazione”, rientrano – per quanto qui di interesse – gli ordini o i divieti sopravvenuti dell’autorità amministrativa c.d. “factum principis”: si tratta, in concreto, di provvedimenti legislativi o amministrativi, dettati da interessi generali, che rendano impossibile la prestazione, indipendentemente dal comportamento dell’obbligato. In sintesi, trattasi di circostanza che funge da esimente della responsabilità del debitore a prescindere dalle previsioni contrattuali in essere.
Nell’ipotesi, invece, di impossibilità temporanea, l’art. 1256 c.c. si limita ad escludere, finché detta impossibilità perdura, la responsabilità del debitore per il ritardo nell’adempimento. Pertanto, in via generale, il debitore, cessata la suddetta impossibilità, deve sempre eseguire la prestazione, indipendentemente da un suo diverso interesse economico che può, eventualmente, far valere sotto il profilo dell’eccessiva onerosità sopravvenuta.
L’impossibilità sopravvenuta va ben distinta dall’eccessiva onerosità sopravvenuta. Quest’ultima, in estrema sintesi, non impedisce la prestazione, ma la rende più “onerosa”, consentendo al debitore di chiedere la risoluzione del contratto o la riduzione della prestazione.
Va da sé, dunque, che la domanda di risoluzione di un contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione deve essere corredata dalla rigorosa prova del fatto la cui sopravvenienza abbia «determinato una sostanziale alterazione delle condizioni del negozio originariamente convenuto tra le parti e della riconducibilità di tale alterazione a circostanze assolutamente imprevedibili»[1 Il rimedio per l’impossibilità della prestazione permanente o temporanea è quello della risoluzione, mentre per l’eccessiva onerosità sopravvenuta è chiaro come oltre alla risoluzione la parte può chiedere di ricondurre il contratto ad equità. Proprio la ricerca dell’equità e l’obbligo per la parte avvantaggiata di rimodulare le condizioni del contratto sperequato per causa Covid è stato valutato e considerato dalla Corte di Cassazione. Con una approfondita e per certi versi innovativa Relazione, l’Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione è intervenuto sul tema delle novità normative aventi ad oggetto l’emergenza Covid-19 in ambito contrattuale e concorsuale. Dopo avere analizzato i recenti interventi emergenziali e i tradizionali rimedi codicistici, la Cassazione compie un deciso endorsement in favore della rinegoziazione quale soluzione ottimale per il riequilibrio dei rapporti commerciali a seguito della sopravvenienza pandemica, sancendo l’esistenza di un dovere di rinegoziazione in capo alla parte avvantaggiata basato sul principio di buona fede oggettiva. Molto si parla, nei tempi di quest’emergenza, della rinegoziazione dei contratti pendenti. Il tema, può dirsi, rappresenta uno dei crocevia del dibattito che la pandemia è venuta a innescare.
Comunemente si segnala la diffusa esigenza di una simile operatività; taluni (pur pochi) ne affermano la positiva esistenza in termini di «obbligo»; frequente, in ogni caso, è il giudizio di opportunità di una soluzione orientata in tal senso. Altri si spinge sino a designarla come la «strada maestra per salvaguardare il rapporto».
La rinegoziazione sembra spiccatamente vocata a condurre verso una prosecuzione del rapporto, con ridefinizione appunto del relativo programma negoziale (per misura delle prestazioni e magari anche per oggetto; sui tempi dell’adempimento; per le garanzie; le clausole penali; ecc.). Si tratta, comunque, di un rimedio da ascrivere al genere di quelli di sostanza correttiva: nel minimo, quanto a una conveniente modulazione dei termini di uscita dal contratto.
Rinegoziare significa impegnarsi a porre in essere tutti quegli atti che, avuto riguardo alle circostanze, possono concretamente permettere alle parti di accordarsi sulle condizioni dell’adeguamento del contratto, alla luce non di modificazioni arbitrarie, ma di quelle di cui il mercato di riferimento fa ostensione come congrue.
I criteri attraverso i quali apprezzare il comportamento delle parti, nel corso delle trattative destinate alla rinegoziazione del contratto, sono anche in quest’occasione rappresentati dalla clausola generale di buona fede (art. 1175 c.c. e art. 1375 c.c.), che non è regola sul contenuto ma giustappunto sulla condotta.
Qualora si ravvisi in capo alle parti l’obbligo di rinegoziare il rapporto squilibrato, si potrebbe ipotizzare che il mancato adempimento di esso non comporti solo il ristoro del danno, ma si esponga all’esecuzione specifica ex art. 2932 c.c.. Al giudice andrebbe riconosciuto il potere di sostituirsi alle parti pronunciando una sentenza che tenga luogo dell’accordo di rinegoziazione non concluso, determinando in tal modo la modifica del contratto originario. L’obbligo di rinegoziare è un obbligo di contrarre le modifiche del contratto primigenio suggerite da ragionevolezza e buona fede; la parte che per inadempimento dell’altra non ottiene il contratto modificativo, cui ha diritto, può chiedere al giudice che lo costituisca con sua sentenza.
Fonte: Altalex.com