Cassazione penale, sez. I, sentenza 10/12/2018 n° 55037
La Cassazione conferma la sentenza del Tribunale di Trento che, previo riconoscimento della fattispecie di lieve entità di cui alla L. 110 del 1975, art. 4 comma 3, aveva condannato l’imputato che si era reso responsabile del reato di porto ingiustificato di strumento atto ad offendere, per essere stato trovato in possesso di una mazza da baseball lunga 60 cm.
E’ quanto ha statuito la Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza n. 55037 del 10.12.2018 (ud. 6.11.2018).
Il difensore proponeva ricorso per cassazione, denunciando, con il primo motivo, inosservanza ed erronea applicazione della legge penale in relazione al disposto della L. n. 110 del 1975, art. 4, e motivazione contraddittoria ed illogica, se non assente. Con il secondo motivo, inosservanza e/o erronea applicazione della L. n. 110 del 1975, art. 4, comma 2. In sostanza, secondo il ricorrente, il Tribunale non aveva considerato che nel caso specifico difettavano gli elementi costitutivi del reato poiché la mazza rinvenuta in suo possesso non costituiva oggetto atto ad offendere, essendo di ridotte dimensioni ed inoffensiva, oltre che utilizzata in ambito sportivo quale oggetto di libera vendita. In aggiunta, la mazza in sequestro non poteva in alcun modo considerarsi un’arma, ma solo un oggetto decorativo o con finalità pubblicitaria, recante la denominazione della squadra calcistica di cui l’imputato era tifoso.
Secondo la Suprema Corte, l’assunto difensivo non aveva individuato un’unica, precisa e verificabile giustificazione del porto fuori la propria abitazione di una mazza da baseball. Invero, nel caso di specie, la difesa aveva richiamato evenienze teoriche e possibili in natura, senza però offrire una giustificazione positivamente riscontrabile, rapportata al caso concreto. Si era limitata a prospettare, in via astratta ed ipotetica, che la mazza fosse stata detenuta per la passione sportiva per il gioco del baseball o quale gadget della squadra calcistica dell’imputato, ovvero per mero ricordo di viaggio, in ogni caso per scopi del tutto leciti. L’art. 4 co.2 della Legge 110 del 1975 richiede invece espressamente che il porto fuori dalla propria abitazione o dalle pertinenze di essa, di strumenti atti ad offendere, costituisce reato alla sola condizione che esso avvenga “senza giustificato motivo” ed a prescindere quindi dall’ulteriore condizione che esso appaia “chiaramente utilizzabile, per le condizioni di tempo e di luogo, per l’offesa della persona”.
Il Supremo Collegio sottolinea come la giurisprudenza di legittimità detta i criteri per ricostruire la fattispecie di porto ingiustificato di strumento atto ad offendere, nel senso che il “giustificato motivo” del porto degli oggetti di cui alla L. 18 aprile 1975, n. 110, art. 4, comma 2, ricorre solo quando particolari esigenze dell’agente siano perfettamente corrispondenti a regole comportamentali lecite, relazionate alla natura dell’oggetto, alle modalità di verificazione del fatto, alle condizioni soggettive del portatore, ai luoghi dell’accadimento, alla normale funzione del bene (Cass. sez. 1, n. 9662 del 03/10/2013, dep. 27/02/2014, Dibra, rv. 259787; sez. 1, n. 4498 del 14/01/2008, Genepro, Rv. 238946; sez. 1, n. 41098 del 23/9/2004, Caruso, rv. 230630; sez. 1, n. 580 del 5/12/1995, Paterni, rv. 203466).
Il Supremo Collegio condividendo le conclusioni del Tribunale respinge il ricorso dell’imputato in quanto il giustificato motivo rilevante ai sensi della normativa contestata, non è quello dedotto a posteriori dall’imputato o dalla sua difesa, ma quello espresso immediatamente, in quanto riferibile all’attualità e suscettibile di una immediata verifica da parte degli agenti verbalizzanti (sez. 1, n. 18925 del 26/02/2013, Carrara, rv. 256007; sez. 1, n. 4696 in data 14/01/1999, Zagaria, rv. 213023).
Tali indicatori non sono stati nemmeno presi in considerazione nell’impugnazione, che, per la sua astrattezza e la trattazione dei relativi temi in termini generali e soltanto possibilistici, risulta inammissibile, poiché non consente di ravvisare i vizi della sentenza impugnata denunciati, sentenza che, seppur per implicito, ha escluso che la condotta avesse trovato una plausibile ragione lecita.
Quanto al secondo motivo, che investe il giudizio di responsabilità sotto il profilo della potenzialità dell’uso offensivo dell’oggetto portato in luogo pubblico, al di là delle contingenze del singolo momento, la Corte ritiene che siffatto accertamento non sia stato dedotto dalla difesa nel corso del giudizio di prima grado, ma solo con il ricorso per cassazione, incorrendo così nella sanzione della inammissibilità per difetto di prova.
Il ricorso viene dunque rigettato con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Fonte: Altalex.com (nota di Serena Masi)