Cassazione Civile, Sezione Lavoro, sentenza 06/11/2015 n° 22710
Il datore di lavoro è responsabile per i danni derivanti dall’amianto anche se il rapporto di lavoro si sia svolto in epoca antecedente all’introduzione di specifiche norme per il trattamento dei materiali contenenti tale sostanza, perché l’intrinseca pericolosità delle fibre di amianto era conosciuta da tempo e sulla parte datoriale grava l’onere della prova di aver adottato adeguate cautele.
E’ quanto emerge dalla sentenza n. 22710 della Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, depositata il 6 novembre 2015.
Il caso.
Il tribunale e la corte d’appello rigettavano la domanda di risarcimento danni “iure proprio” e “iure hereditatis”, proposta contro il datore di lavoro, a seguito del decesso del loro dante causa per mesotelioma pleurico, contratto nell’esercizio dell’attività lavorativa svolta dal 1955 al 1982.
La decisione.
La sentenza offre un’occasione per la Corte di riepilogare i propri precedenti interventi in tema di amianto e ripercorrere una sintesi della normativa sottesa alla materia. Come ribadito di recente (Cass. 3.8.2012 n. 13956; Cass. 8.10.2012 n. 17092; Cass. 5.8.2013 n. 18626), la responsabilità dell’imprenditore per la mancata adozione delle misure idonee a tutelare l’integrità fisica dei lavoratore discende o da norme specifiche o, quando queste non siano rinvenibili, dalla norma di ordine generale di cui all’art. 2087 c.c., la quale impone all’imprenditore l’obbligo di adottare nell’esercizio dell’impresa tutte quelle misure che, secondo la particolarità del lavoro in concreto svolto dai dipendenti, si rendano necessarie a tutelare l’integrità fisica dei lavoratori (Cass. 19.4.2003 n. 6377, Cass. 1.10.2003 n. 16645).
Sebbene l’art. 2087 c.c. non configuri un’ipotesi di responsabilità oggettiva, la norma sanziona l’omessa predisposizione, da parte del datore di lavoro, delle misure e cautele atte a preservare l’integrità psicofisica e la salute del lavoratore nel luogo di lavoro, tenuto conto della concreta realtà aziendale, della sua maggiore o minore possibilità di venire a conoscenza e di indagare sull’esistenza di fattori di rischio in un determinato momento storico (Cass. 1.2.2008 n. 2491; Cass. 11.7.2011 n. 15156; Cass. 14.1.2005 n. 644).
Già dal 2005 la Cassazione aveva ritenuto irrilevante il fatto che l’introduzione delle norme (D.P.R. 10 febbraio 1982 n. 15) fosse successiva al periodo della contaminazione nel rapporto di lavoro (Cass. 30-6- 2005 n. 14010); la pericolosità della lavorazione dell’amianto era infatti nota da epoca ben anteriore.
Già il R.D. 14 giugno 1909 n. 442, che approvava il regolamento per il T.U. della legge per il lavoro delle donne e dei fanciulli, all’art. 29, tabella B, n. 12, includeva la filatura e tessitura dell’amianto tra i lavori insalubri o pericolosi, nei quali l’applicazione delle donne minorenni e dei fanciulli era vietata o sottoposta a speciali cautele, con una specifica previsione dei locali ove non era assicurato il pronto allontanamento del pulviscolo.
Analoghe disposizioni si trovavano nel regolamento per l’esecuzione della legge sul lavoro delle donne e dei fanciulli (D.Lgt. 6 agosto 1916 n. 1136, art. 36, tabella B, n. 13) e nel R.D. 7 agosto 1936 n. 1720, che approvava le tabelle indicanti i lavori per i quali era vietata l’occupazione dei fanciulli e delle donne minorenni; il R.D. da ultimo citato prevedeva alla tabella B i lavori pericolosi, faticosi ed insalubri in cui era consentita l’occupazione delle donne minorenni e dei fanciulli, subordinatamente all’osservanza di speciali cautele e condizioni e, tra questi, al n. 5, la lavorazione dell’amianto, limitatamente alle operazioni di mescola, filatura e tessitura.
Inoltre, il R.D. 14 aprile 1927 n. 530, tra gli altri, agli artt. 10, 16, e 17, conteneva diffuse disposizioni relative all’aerazione dei luoghi di lavoro, soprattutto in presenza di lavorazioni tossiche.
La Corte ricorda inoltre che l’asbestosi, malattia provocata da inalazione da amianto, era conosciuta fin dai primi del ’900 e fu inserita tra le malattie professionali con la legge 12 aprile 1943 n. 455.
Passa quindi ad elencare una serie di disposizioni normative che facevano riferimento all’amianto: la legge delega 12 febbraio 1955 n. 52, che, all’art. 1, lett. F, prevedeva di ampliare il campo della tutela; il D.P.R. 19 marzo 1956, n. 303; le visite previste dal D.P.R. 20 marzo 1956 n. 648.
A ciò va aggiunto il regolamento 21 luglio 1960 n. 1169, il quale, all’art. 1, prevede, specificamente che la presenza dell’amianto nei materiali di lavorazione possa aver luogo a causa della inalazione di polvere di silice libera o di amianto.
Infine la Corte ricorda che il premio supplementare stabilito dal T.U. n. 1124 del 1965, art. 153, per le lavorazioni di cui all’allegato n. 6, presupponeva un grado di concentrazione di agenti patogeni superiore a determinati valori minimi.
Ciò premesso il Supremo Collegio individua la colpa: l’imperizia, nella quale rientra l’ignoranza delle necessarie conoscenze tecnico-scientifiche, è uno dei parametri integrativi al quale commisurare la colpa e non potrebbe risolversi in esimente da responsabilità per il datore di lavoro: l’intrinseca pericolosità delle fibre dell’amianto è conosciuta da tempo, tanto che l’uso di materiali che la contengono era anzitempo sottoposto a particolari cautele, indipendentemente dalla concentrazione di fibre.
Si imponeva, quindi, il concreto accertamento dell’adozione di misure idonee a ridurre il rischio connaturale all’impiego di materiale contenente amianto, in relazione alla norma di chiusura di cui all’art 2087 c.c. ed al D.P.R. 19 marzo 1956 n. 303; quest’ultimo, all’art. 2, stabilisce che nei lavori che danno normalmente luogo alla formazione di polveri di qualunque specie, il datore di lavoro è tenuto ad adottare provvedimenti atti ad impedire o ridurre, per quanto è possibile, lo sviluppo e la diffusione nell’ambiente di lavoro, soggiungendo che le misure da adottare a tal fine devono tenere conto della natura delle polveri e della loro concentrazione, cioè devono avere caratteristiche adeguate alla pericolosità delle polveri.
Devono altresì esser tenute presenti altre norme dello stesso D.P.R. n. 303, ove si disciplina il dovere del datore di lavoro di evitare il contatto dei lavoratori con polveri nocive: così l’art. 9, che prevede il ricambio d’aria, l’art. 15, che impone di ridurre al minimo il sollevamento di polvere nell’ambiente mediante aspiratori, l’art. 18, che proibisce l’accumulo delle sostanze nocive, l’art. 19, che impone di adibire locali separati per le lavorazioni insalubri, l’art. 20, che difende l’aria dagli inquinamenti con prodotti nocivi specificamente mediante l’uso di aspiratori, l’art. 25, che prescrive, quando possa esservi dubbio sulla pericolosità dell’atmosfera, che i lavoratori siano forniti di apparecchi di protezione.
Da questa ricostruzione storico-giuridica dell’art. 2087 c.c. la Corte trae la conclusione che l’onere della prova grava sul datore di lavoro, il quale deve dimostrare di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno (prova liberatoria) attraverso l’adozione di cautele previste in via generale e specifica dalle suddette norme, laddove sia incontestato il nesso causale tra l’evento e attività svolta.
Nella circostanza è irrilevante che all’epoca dei fatti di causa non si sapesse che anche singole fibre d’amianto inalate potevano essere letali; è invece rilevante il mancato assolvimento della prova liberatoria da parte della datrice di lavoro; si tratta infatti di responsabilità contrattuale per omessa adozione, ai sensi dell’art. 2087 cod. civ., delle opportune misure di prevenzione atte a preservare l’integrità psico-fisica del lavoratore nel luogo di lavoro, pur tenendosi conto della concreta realtà aziendale e del rischio conosciuto da tempo.
Fonte: Altalex.com